Siamo arrivati con un tuk tuk alla stazione nord di Luang Prabang, da dove è partito il pullman che ci sta portando al confine con la Thailandia. Il viaggio si sta rivelando molto più lungo del previsto: nella notte il nostro mezzo si è impantanato, a causa delle forti piogge dei giorni scorsi, e si sono rotte le sospensioni. Ci sono volute nove ore per riparare il guasto, al buio, nel fango: questo fango rosso e argilloso che è lo stesso del letto dei fiumi, il cui colore stride con il verde delle colline tra cui scorrono impetuosi.
Cerco di bere meno acqua possibile, perché chissà quando sarà la prossima volta che ci fermeremo; adesso sono le due del pomeriggio e siamo in viaggio da diciassette ore. Una signora due file avanti a noi ha con sé una borsa piena di quello che sembra, dall’odore, pesce sotto sale; qualcuno seduto nei posti in fondo scaracchia a intervalli regolari – non so dove, ma spero non nel corridoio. Animo, animo! Il paesaggio è spettacolare e si estende, verdissimo, a perdita d’occhio. Fortunatamente è un po’ nuvolo oggi, e il sole non mi batte addosso se mi appoggio al finestrino per guardare fuori. Sembra anche fare un po’ più fresco, viaggiamo tra le nuvole basse.
Dovevamo arrivare a Huay Xai alle sette del mattino e siamo arrivati alle sei di sera, appena dopo la chiusura della frontiera. Abbiamo come il sospetto che gli autisti dei pullman che arrivano dal Laos intaschino una mancia dalle guesthouse, se riescono a tardare quel poco che basta a costringere i viaggiatori a pernottare in paese. Sta diluviando e ci fermiamo nel primo posto che troviamo. La signora alla reception è minuscola e zoppica un po’, fa battute che non capiamo e ride con una risata sguaiata, a tratti strabuzza gli occhi e diventa cattivissima. Poi apre la bocca e ride di nuovo. La camera è bruttina e abbastanza sporca, con i soliti cavi scoperti nel bagno e gli asciugamani macchiati, ma per una notte ce la faremo andare bene. Riso fritto, birra e due chiacchiere e la notte passa tra sogni acquatici, col sottofondo della pioggia che scroscia dalla grondaia sopra la nostra finestra.
La mattina dopo, la pioggia continua, e torrenti marroncini scendono veloci giù per la strada. Sono solo tre minuti a piedi fino al fiume, ma è tutto allagato; il passaporto si bagna un po’ quando lo tiro fuori per farmi fare il timbro di uscita dal Laos. Oltre il Mekong c’è la Thailandia, e l’unico modo per attraversare il fiume, gigantesco e marrone, è su delle barchette lunghe lunghe sottili sottili che non sembrano molto stabili. Sono coperte da dei teloni, ma la pioggia cade obliqua sui nostri zaini e le gocce sono così grosse che l’impatto di ognuna con l’acqua del fiume dà vita a centinaia di migliaia di crateri i cui piccoli schizzi si alzano e si abbassano in un movimento regolare, incessante, ballerino. Siamo fradici ma felici, l’acqua è fresca e la barca va veloce verso la riva opposta del fiume. Il primo paese oltre il confine thailandese si chiama Chiang Kong: un passo, un altro timbro, e siam di nuovo nel Paese dei sorrisi.
Info utili
Il biglietto del pullman da Luang Prabang costa una ventina di dollari (non ricordo il prezzo esatto, anche perché noi dal confine abbiamo proseguito diretti fino a Chiang Rai con un biglietto unico). È stato un viaggio lungo e stancante, principalmente a causa del guasto e del conseguente ritardo di nove ore. In ogni caso, tappi per le orecchie, un cuscino da viaggio e il panorama mozzafiato della giungla laotiana vi faranno dimenticare il tempo che passa.
La vera fregatura è stata dover perdere una notte al confine in attesa che aprisse la frontiera al mattino… ma sono anche questi imprevisti a rendere il viaggio indimenticabile! La guesthouse (BAP guesthouse) dove abbiamo trovato posto era zozza e un po’ inquietante, ma la signora sdentata ci ha fatto un buon prezzo (5 dollari per una doppia con bagno).