Quest’anno i miei viaggi di volontariato mi hanno portato ad Abobo. Abobo si trova nello stato di Gambella, sud-ovest dell’Etiopia e proprio sul confine con il Sud Sudan. Una zona già di per sè povera, ulteriormente devastata dalla guerra civile che si combatte appena al di là del confine. Tutti i giorni arrivano gruppi di profughi, normalmente donne e bambini, che vengono accomodati nei campi dell’UNHRC finchè ci stanno, ma non c’è posto per tutti…
Il confine politico che separa Etiopia e Sud Sudan non rispecchia una divisione etnica; le etnie che vivono nei due stati sono le stesse e quindi ogni volta che la guerra civile si inasprisce in Sud Sudan, le tensioni tra gruppi etnici aumentano anche in Etiopia. Oltre alle donne e bambini che arrivano come profughi dal Sud Sudan, si vedono uomini che, armati di machete, partono per raggiungere il confine pensando di poter aiutare parenti e amici… è una situazione agghiacciante e che spezza il cuore.
In tutta questa follia Abobo riesce ad essere un posto magico… è l’Africa come uno se la può immaginare, selvaggia (anche troppo) e bellissima.
La sera, quando si va a dormire sotto la zanzariera, ma protetti solo da quella perchè fa un caldo terribile, si iniziano a sentire i rumori della foresta (ruggiti dei felini, richiami degli uccelli, battibecchi tra iene) e, dai villaggi, si sentono i suoni dei tamburi e i cori delle tribù che cantano.
Il mio definire questo come “un viaggio di volontariato” è forse un po’ troppo ottimista… Io sono partita con le migliori intenzioni, ma appena arrivata lì ho capito che questa volta avrei vinto il premio Nobel per l’inutilità.
Ad Abobo servono medici, insegnanti ed ingegneri; persone ben più preparate di me…. alla fine ho potuto solamente fare qualche lezione di inglese nelle classe dei bambini più piccini (ad Abobo ci sono solo 3 classi di scuola primaria, con bambini che vanno dai 4 ai 7 anni. Le scuole secondarie sono a Gambella che dista 45 chilometri che si fanno in quasi due ore) e aiutare in ospedale a sistemare le cartelle cliniche.
Ad Abobo c’è una missione dove pochi volontari fanno un lavoro fantastico: hanno scavato i pozzi che ora danno acqua potabile a tutta la popolazione, hanno aperto la scuola e un piccolo ospedale nella foresta dove ogni anno curano circa 30mila persone: affrontando ogni anno l’epidemia di malaria che fa strage, facendo nascere e vaccinando i bambini, facendo test dell HIV e somministrando i medicinali ai sieropositivi, curando morsi di serpente, scorpioni e cani rabbiosi.
Ad Abobo vivono tre diverse etnie che compongono una popolazione bellissima e con tratti somatici chiaramente distinguibili tra loro. Ci sono i Dinka bellissimi e altissimi… venissero in Italia finirebbero tutti a fare i modelli alla Milano Fashion Week entro breve… e gli Anuak, scurissimi di pelle e con gli zigomi impossibilmente alti. Oltre a loro ci sono gli etiopi che non sarebbero originari di questa zona, ma che sono stati forzatamente portati in questo corno che si infila in Sudan quando l’Etiopia ha conquistato la regione.
Le etnie sono dunque le stesse che vivono a pochi chilometri di distanza in Sud Sudan; nella regione di Gambella sembrano convivere con una certa tranquillità ma ovviamente quello che succede a pochi chilometri al di là del confine influenza anche la convivenza in questa zona di Etiopia. Oltre a questo, la ricchezza di etnie è spesso fonte di problemi pratici e confusione; ogni cosa deve essere fatta in tre lingue per assicurarsi che tutti capiscano: la messa è lunga come una messa, appunto; in ospedale oltre a medici ed infermieri è necessario che ci siano sempre dei traduttori e a scuola, in ogni classe ci sono tre insegnanti. Anche per questo il mio progetto di poter insegnare inglese al mattino è miseramente naufragato… questi cuccioli già devono sentirsi ripetere tutto in tre lingue, mi è sembrato che andarci ad aggiungere anche l’ambizione di insegnargli qualche parola di inglese in poche settimane fosse una crudeltà gratuita… quindi alla fine ci divertivamo a fare giochini in cui imparavano almeno i colori e a scrivere il loro nome in caratteri latini.
L’ospedale è un posto che accosta un girone dantesco ad un posto pieni di speranza. All’entrata c’è un cartello che vieta l’ingresso con le armi, perché nei periodo di maggiore tensione o quando, in passato, la guerriglia arrivava fino a qui c’era anche quel problema… L’accettazione è costantemente piena di gente che aspetta di essere visitata e i reparti (pochi stanzoni con una dozzina di letti ciascuno) sempre sovraffollati. Più in là, se parato da tutto c’è il padiglione per i tubercolosi. Durante le epidemie di malaria vengono messi dei materassi nei porticati che uniscono i laboratori e i pazienti stanno anche lì….. paragonato agli ospedali a cui siamo abituati noi la situazione è allucinante, ma è un posto pieno di professionisti preparatissimi e, cosa ancora più importante, è un posto dove si salvano vite. Tutti i giorni.
La scuola è composta di 3 classi, due all’interno della missione e una al villaggio 14, che si trova a 8 chilometri di distanza. E’ una minuscola costruzione di cemento sotto le piante, per quella trentina di bambini che se no dovrebbero farsi 16 chilometri al giorno per fare 4 ore di scuola….. una mattina mi è sembrata un’idea geniale andarci a piedi…. in un momento di grande amore per la “mia Africa” ho pensato di camminare quegli otto chilometri sulla strada sterrata che taglia in due la foresta e dove la mia impronta è l’unica impronta di scarpe, tutte le altre sono di piedi nudi… L’andata, all’alba, è stata fantastica, con i bambini che ti corrono dietro, ridendo come pazzi (noi bianchi siamo una cosa esoticissima per loro) e la natura incredibilmente rigogliosa, i tucani e le gazze ladre che svolazzano in giro. Purtroppo al ritorno col sole a picco quasi divento cibo per gli avvoltoi…
Al sabato e alla domenica il fiume Baro, che scorre non lontano dal villaggio 14, diventa il centro della vita sociale. I bambini giocano nell’acqua, i più grandi si tuffano, le donne fanno il bucato e stendono i panni e tutti, noi compresi, troviamo un po’ di sollievo dal caldo e dalla polvere. Noi europei non ci siamo fidati a fare il bagno perché, come d’altronde con TUTTO in Africa, si può prendere un virus – la bilarzia – che distrugge lentamente la funzionalità dei reni e poi si dice che nel lago creato dalla diga appena a monte ci siano i coccodrilli anche se, con una sicumera tipicamente africana, ci dicevano di stare tranquilli che tanto i coccodrilli stavano “di là”…. già…..
E’ stato un viaggio in cui l’orrore e la bellezza convivono armoniosamente e quando, con arroganza tipicamente occidentale, penso di aver visto tutto quello che c’era da vedere Mamma Africa mi ricorda che non ho visto ancora niente.
La tua esperienza deve essere stata molto profonda e complessa, non da tutti. Grazie per verci fatto partecipare a tanta emozione.
Ciao Flavia. In effetti è stata una delle esperienze più “forti” che abbia mai vissuto. Grazie a te!