Birmania, un viaggio low-cost nell’Asia più autentica

Burma Mingalaba.*
Sono già passati quattro mesi da quando sul tavolo della cucina lasciai a mio marito una guida e un biglietto: “Destinazione Myanmar. Vuoi essere il mio compagno?
Inizia così la storia del nostro ultimo viaggio nel Sud Est Asiatico: un’avventura low cost iniziata con lo smarrimento di soldi e carte di credito ancor prima di arrivare a destinazione.

Ma procediamo con ordine. Prima di tutto non affidatevi troppo alle informazioni delle guide turistiche. Negli ultimi due anni il Paese ha avuto una svolta touristic oriented tale da aver risolto tanti degli ostacoli relativi ad alloggi, comunicazioni, collegamenti internet e cambio di denaro. L’unica raccomandazione: le banconote devono essere come nuove. Se sono macchiate o sgualcite non le cambiano nemmeno al mercato nero, che è spesso meno conveniente delle banche. I pagamenti in euro sono accettati nei principali siti turistici.

Per quanto riguarda il biglietto aereo consiglio di prenotare un volo Italia – Bangkok (scalo obbligatorio) e poi affidarsi per l’ultima tratta a qualche compagnia minore (AirAsia ad esempio) al costo di circa 60 USD.

Arriviamo a Yangoon di notte. L’aeroporto è piccolo e deserto.

Prendiamo un taxi per raggiungere il quartiere indiano dove alloggiamo (Ocean Pearl II – doppia 20 USD con bagno privato, internet e colazione – Myanmarhotel-budget.com). La prima nottata la trascorriamo in un centro internet a cercare di bloccare le carte di credito smarrite a Bangkok. Dopo il panico iniziale beviamo una birra Myanmar, orgoglio nazionale, e pianifichiamo la giornata.

Inutile dire che l’attrazione principale della città è la maestosa Shwedagon Paya (pagoda).La leggenda racconta che all’interno dello zedi (lo stupa principale) siano conservate ciocche di capelli del Buddha e che la sommità della guglia sia adornata con un grosso diamante. Come in tutti i templi buddhisti, nella Pagoda si entra scalzi e si gira attorno allo zedi in senso orario.

Burma - viaggio in Birmania

Ci fermiamo a osservare i riti religiosi che si susseguono nei diversi stupa minori, dove i fedeli donano fiori alle immagini sacre e denaro ai monaci. Ahimè, la nota dolente è stata proprio la sensazione di trovarsi in una “azienda” religiosa più che in un luogo di culto, forse a causa dei 6 bancomat situati agli ingressi. Troppi considerando che tutta Yangoon ne conta circa 40.

Con uno stipatissimo bus locale raggiungiamo il Bogyoke Aug San Market, forse lo zei (mercato) più vecchio della città.

Diluvia. Ci divertiamo a cercare riparo tra le bancarelle di cibo, tessuti e tronchi di thanaka, un albero simile al sandalo dalla cui polvere si ricava la tradizionale crema idratante. Ci sono anche i sarti che confezionano i longy – la gonna tipica indossata da uomini e donne.

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Ci perdiamo letteralmente del caotico quartiere indiano: c’è agitazione nell’aria e decisamente troppa gente. Capiremo il giorno seguente che proprio in quelle ore, al Trader’s Hotel l’albergo più famoso del quartiere, c’era stato un attentato.

Il Yangon Circle, il treno circolare che raggiunge i sobborghi della città, ci da l’occasione per vedere la vita in periferia. E’ permesso salire e scendere alle diverse stazioni a piacimento, utilizzando sempre lo stesso biglietto (1 USD). Per questo facciamo uno stop sull’Inya Lake (non aspettatevi un paesaggio mozzafiato, quelli arriveranno tutti fuori Yangoon) per una visita alla casa natale di Aung Sang Suu Kyi.

Lasciamo Yangoon in autobus in direzione Golden Rock, la roccia che sfida le leggi di gravità in bilico su un dirupo del monte Kyaikito. La leggenda racconta che sia tenuta in equilibrio da un capello del Buddha.

Per arrivarci, da Kinpun si sale sul cassone di uno degli affollatissimi camion al costo di 1500 kyat a persona. Piove ma il tragitto di circa 1 ora è davvero divertente.

La roccia non è accessibile alle donne, che possono stare a guardare mentre gli uomini pregando attaccano foglie d’oro lungo i bordi in segno di devozione.
L’ingresso costa 6 USD o 6 euro. – Ai Birmani spesso sfugge il concetto di cambio – .

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Trascorriamo 2 giorni a Kinpun sotto l’occhio vigile di Mr. Koko, il tuttofare della guesthouse Pan Myo Thun (7 USD a notte).

Il paese è delizioso. Situato a ridosso della foresta ci ha dato l’occasione di vedere la farfalla più grande mai vista.

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Nel tragitto verso l’Inle Lake sostiamo a Bago per circa 6 ore, dove, in moto con Mr. Zaw Tun visitiamo i principali siti religiosi:

il Buddha disteso Shwethalyaung (lungo 54 metri, alto 16);

la Pagoda Swemawdaw – dove abbiamo capito che dei 4 ingressi, quello a sud è riservato ai birmani che non pagano l’entrata, e nemmeno i loro accompagnatori, a quanto pare;

il Monastero del Serpente in cui vive un pitone ultracentenario reincarnazione di un monaco. Bellissimo lo stop al monastero di Kha Khat Kyang, il secondo centro culturale della Birmania che, nel 2007 nel periodo della  Rivoluzione di Zafferano ospitava oltre 1500 monaci.

Oggi ne restano poco più di 500.

Una veloce visita alla fabbrica di sigari, dove donne dalle mani velocissime arrotolano sigarette con maestria. Nel tragitto in moto riusciamo a farci raccontare qualcosa sull’attuale situazione economica birmana. La gente parla difficilmente di politica ma quello che ne emerge è una sensazione di delusione.

Ci aspetta un lungo viaggio verso l’Inle Lake: gli autobus sono stretti e scomodi e trasmettono tutta notte film romantici dove l’innamorato prende sempre un sacco di botte. Appassionanti!

Passiamo di notte per la nuova capitale Nay Py Tawuna città assurda fatta di strade a 4 corsie, alberghi mastodontici presumibilmente vuoti, enormi rotonde con al centro giochi di luce super kirsch protetti dallo sguardo vigile di soldati armati vestiti in alta uniforme. E così, come dal nulla compare così scompare, senza l’ombra di una periferia.

Arriviamo a Nyaungshwe intorno le 4 del mattino, quando le donne iniziano a scaldare l’olio per friggere delle deliziose frittelle. La tassa di ingresso al lago Inle è di 10 USD.

Qui tutto gira intorno al turismo e trovare una barca per visitare il lago è davvero semplicissimo. Visitiamo gli orti di pomodori galleggianti, il mercato, le funzioni religiose, tanti monasteri incluso quello con i gatti saltanti, addestrati dai monaci in inverno per sconfiggere la noia.

Incredibili i pescatori Inhya che, con abilità guidano la barca in equilibrio su una gamba sola.

Purtroppo l’Inle è stato inghiottito dalla sua stessa fama, e nonostante lo spettacolo sia sublime, ha un sapore un po’ costruito.

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Dalle finestre delle case galleggianti le donne dal collo di giraffa aspettano solo di farsi fotografare in cambio di qualche kyat, che non useranno per loro, ma che daranno probabilmente al padrone che le ha comprate.

Ci eravamo promessi che non le avremmo cercate, proprio per non coltivare un mercato di schiavi che non accettiamo e trovarcele davanti ci hanno lasciato senza parole. I collari che indossano sono così pesanti che sono costrette a bilanciare il corpo mettendo dei pesi anche sulle gambe.

Non nego il fascino, il richiamo ad una cultura ancestrale, ma la violenza che subiscono è troppo grande.

I giorni successivi li trascorriamo sulla terraferma. Noleggiamo delle biciclette e ci avventuriamo nei dintorni alla ricerca delle sorgenti termali di Kaung Daing (che altro non sono che due jacuzzi super chic in un posto patinatissimo per turisti danarosi).

La gita ci ha dato l’occasione per fermarci a mangiare i noodle con le arachidi più buoni di tutta la vacanza – in un semplicissimo chiosco sulla strada, dove un curioso oste ci ha insegnato alcune delle ricette del vero street food birmano.

Sul lago Inle c’è tutto: non avrete difficoltà di nessun genere (tranne per il fatto che durante il giorno la corrente elettrica viene sospesa). Siamo ancora in bassa stagione quindi le guest house, piuttosto che lasciare le camere sfitte concedono qualche sconto, e riusciamo a dormire in riva al Lago per 10 USD a notte con colazione (Gypsy Inn, il più economico in assoluto).

Troppa umanità tutta insieme ci convince a dirigerci più a nord, alla scoperta dei villaggi tribali. Destinazione Hsipaw.

Che fare a Hsipaw? Prendere una bicicletta e andare senza meta a scoprire la natura selvaggia. Dopo un po’ le pagode cominciano ad assomigliarsi tutte, anche se qui assumono un aspetto psicadelico rivestite come sono da luci colorate.

Non prendiamo una guida ma ci facciamo fare una mappa super dettagliata da Mr. Nonricordoilnome, che capendo la nostra situazione non lesina nel darci informazioni.

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Così ci inoltriamo nei villagi Shan, attraverso risaie e campi di pannocchie. Nel nulla dei campi, una nonna vedendoci stanchi e affaticati, ci offre le banane più buone di sempre! Raggiungiamo le piccole terme di Dam Karmspring, le cascate, la zona detta Little Bagan.

Tra gli altri visitiamo il monastero del Buddha di bambù conservato in un suggestivo complesso di teak; ci fermiamo a sgranare pannocchie con le donne shan, saliamo per la sunset hill e ammiriamo il tramonto con il silenzioso e solitario monaco custode.

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Assaporiamo cosa sia l’aria magica della Birmania raccontata dai libri.

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Prolunghiamo la permanenza per assistere a un importante festival religioso: una sfilata di carri carnevaleschi che fa convogliare ogni anno tutte le tribù della regione. Un’occasione unica per vedere sfilare gli abiti tradizionali.

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Hpisaw l’abbiamo proprio amata: meno avvezza ai turisti ci ha permesso di instaurare relazioni sincere, entrare negli usi e nelle abitudini di una nazione che ha voglia di emergere.

Decidiamo di raggiungere Mandalay passando per il Gokteik Viaduct. Decisamente una scelta azzeccata! Il Gokteik Viaduct è il ponte in ferro a capriate più grande del mondo. Fu costruito nel 1900 e si raggiunge da Hipsaw con 4/5 ore di viaggio su un treno decisamente datato.

Il binario è immerso nella natura selvaggia, l’andatura è straordinariamente lenta, il panorama è mozzafiato. Nei quasi 700 metri di lunghezza si può ammirare il panorama da un punto di vista privilegiato, all’altezza di oltre 100 metri da terra.

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La notte comincia a scendere e a noi non resta che armarci di pazienza e controllare che l’ospite inatteso del vagone (un topolino) non prenda troppa confidenza (ma questa è un’altra storia). 

Interrompiamo il viaggio a Pyin U Lwin, un paesino sulla collina dal sapore di colonia inglese. Gli alberghi per turisti sono pochi (gli hotel necessitano di un’autorizzazione speciale per ospitare stranieri) e quelli low cost ancora meno.

Pyin U Lwin è bellissima: le case sono in stile coloniale e per spostarsi si usa prevalentemente con il calesse. Merita una sosta il grande parco botanico che ospita al suo interno il giardino delle orchidee. Per chi apprezza, il Golf Club sembra essere particolarmente rinomato.

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Prendiamo un pick up per raggiungere la stazione degli autobus e restiamo nuovamente incantati dalla gentilezza del popolo birmano. Con noi, nel cassone, una combriccola di anziani ha condiviso dolcetti e massaggi al balsamo di tigre (la versione sintetica, per fortuna).

Mandalay la visitiamo di corsa, devo essere sincera: ma ora abbiamo davvero voglia di raggiungere Bagan. Ci fermiamo solo poche ore (anche per non essere costretti a pagare la tassa di ingresso di 10 USD), sufficienti per visitare la Mahamuni Pagoda, i negozi di foglie d’oro (quelle che gli uomini possono attaccare alle statue) e di marmo e ci facciamo un bell’itinerario a piedi perdendoci tra la folla caotica.

Ebbene si, non abbiamo visto Amapura e l’U Bein’s Bridge: abbiamo ritenuto che visitare il ponte di pomeriggio, senza il fascino del  tramonto e dei monaci (l’immagine tipica delle cartoline di Mandalay) ci avrebbe un po’ deluso. E i giorni a nostra disposizione stavano terminando.

Il mattino seguente arriviamo a Bagan, l’ultima meta.  Che dire: soprendente! Una piana che conta oltre 4000 templi. Bagan va respirata girando in bicicletta, va scoperta perdendosi negli oltre 40 kmq di templi, va vissuta uscendo dai tracciati turistici, aspettando il tramonto da sopra gli edifici più alti.

Il governo birmano non ha tenuto conto del valore storico del sito quindi capita di vedere degli improbabili tentativi di restauro, ma che fortunatamente sono stati limitati dall’attenzione internazionale.

I motorini sono stati banditi a seguito dell’incidente di qualche nipote di un’esponente politico, per questo sono state sostituite da funzionali – quanto brutte- biciclette elettriche.

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E’ possibile sorvolare il sito in mongolfiera, anche se nella nostra permanenza il tempo davvero inclemente non ha permesso le partenze. Bellissimi gli scorci in riva al fiume e inebriante il liquore ricavato dall’albero del toddy, una grappa un po’ troppo alcolica per i miei standard. Splendide le lacche, incise a mano con l’aiuto di uno spillo.

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A Bagan abbiamo assaggiato la famosa birra spirulina, preparata dall’omonima alga  che sembra avere un effetto anti-invecchiamento.

E sotto un’acqua torrenziale visitiamo anche il Monte Popa, un vulcano spento oggi parco nazionale. Si raggiunge prendendo uno dei tanti pick up in partenza dai pressi della stazione degli autobus, e poi si sale sulla cima a piedi per non disturbare i 37 Nats –spiriti guardiani del Bene e del Male – tanto sacri al popolo birmano.

Terminiamo la vacanza a Yangoon, in compagnia di Alejandro, un amico spagnolo incontrato per caso che avevamo conosciuto in Laos qualche anno fa.

 

Gyzube Burma. 

25 giorni sono troppo pochi per riuscire a capirti a fondo. Ci dovremo ritornare.

*Mingalaba: ciao
* Gyzube: grazie

 

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Due sono le cose che la contraddistinguono: uno zaino sempre pronto e due cani al suo fianco. Ama i viaggi disorganizzati, il Sud Est Asiatico, il suo compagno di vita e di avventura e tutto ciò che non capisce fino in fondo. Le piace chiacchierare e restare sorpresa dalla bellezza e dalla generosità della gente semplice. La trovate su Ruzzas.it

2 Commenti

  1. Ciao sono stata in Birmania nel 1986 quando il visto durava una settimana. Il tuo racconto mi ha invogliato a tornarci anche se con qualche timore

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