Phnom Penh è una perla nera, nera del fumo dei tubi di scappamento che ne rendono l’aria irrespirabile. Quando arriviamo, la città è in festa: proprio oggi è tornato in patria dall’esilio a Parigi il leader dell’opposizione Sam Rainsy, per grazia del re, a garantire sulla trasparenza delle elezioni che stanno per svolgersi. I ragazzi improvvisano cortei di motorini per le strade, di ora in ora più numerosi e rumorosi, tra i clacson, le bandiere e i cori che inneggiano – ci figuriamo – al cambiamento tanto desiderato da questa generazione che cresce nel mondo globale, investita dal suo lato più oscuro. Leggendo le notizie dei giorni seguenti, scopriremo che le speranze di cambiamento dei giovani cambogiani sono state frustrate: ci sono stati dei brogli e ha vinto ancora il “partito del popolo”, che regna incontrastato da 20 anni.
La Cambogia è un luogo di contrasti. Il più devastante è quello tra il grande e glorioso passato del regno di Angkor, il passato prossimo e sanguinoso di Pol Pot, della guerra civile, e il presente incerto tra povertà estrema, modernizzazione e turismo: nella capitale Phnom Penh, queste contraddizioni assumono una forza sconvolgente.
Phnom Penh è sporca, caotica, opprimente e ti sbatte in faccia l’infame storia dei Khmer Rouge con una violenza inaspettata. È una capitale con strade sterrate e fogne che scorrono a cielo aperto. Siamo rimasti profondamente colpiti da questa città, dalla povertà che si può vedere per le strade, in contrasto con la placida calma del gigantesco Mekong che qui si incontra con il fiume Tonlè Sap.
Arriviamo accolti da un violentissimo temporale. La stanza in cui dormiamo (alla Same Same Backpackers Guesthouse) è piuttosto spartana, con i tubi del bagno a vista, ma l’area comune è piuttosto vivace, c’è anche il biliardo e il Lok lak (tipica ricetta khmer di pollo con salsa al lime e pepe nero) che cucinano è buonissimo.
Un’esperienza da non perdere a Phnom Penh è girare per il mercato, noto come russian market: il più sporco, disordinato, puzzolente e caotico mercato del nostro giro in Asia. Non è raro vedere topi che scorrazzano tra le bancarelle di cibo, ma si possono fare degli acquisti molto interessanti (Polo Lacoste a 5 USD o il famoso pepe nero di Kampot).
Poco lontano dal nostro ostello c’è il palazzo Reale, che con il suo tetto ricoperto d’oro sembra esser lì per sbaglio: appoggiate alla cancellata vivono persone che hanno un telo e un’amaca come casa, bambini che si lavano nelle pozzanghere nere. Non è giusto!
Choeung Ek, il più famoso dei killing fields, si trova alla periferia di Phnom Penh. Durante il regime di Pol Pot, in soli quattro anni (dal 1975 al 1979) qui hanno perso la vita quasi diecimila persone, su un totale di più un milione e mezzo di persone morte (quasi un quarto della popolazione) in tutta la Cambogia. L’audioguida in italiano ci conduce nella visita del parco, che fino agli anni 70 ospitava un rigoglioso frutteto. L’esperienza è molto forte, sentire nelle cuffie le storie di chi ha vissuto quell’incubo mentre si cammina tra le buche che ancora oggi rigurgitano ossa e brandelli di vestiti fa pensare parecchio. Vedere le fosse comuni e l’albero contro il quale venivano uccisi i bambini è inspiegabile. Per non parlare dell’immenso stupa che racchiude cinquemila teschi ritrovati nelle fosse comuni.
Se visitare Choeung Ek può essere doloroso, andare al Toul Sleng genocide museum, meglio noto come S-21, può essere molto, molto peggio, perlomeno così è stato per me. Prima del tempo dei Khmer Rouge era un liceo, lo si capisce subito vedendo l’edificio. Tutto è rimasto uguale a quella notte del 1979 quando le armate vietnamite scoprirono questo posto dell’orrore. Quelle che una volta erano aule di studio furono trasformate in piccole celle aggiungendo dei muri di mattoni. Sulle lavagne rimangono i segni del passaggio di vittime e carnefici: turni, regole, formule matematiche. La maggior parte delle persone imprigionate nell’S-21 erano scienziati, professori, ingegneri, letterati: i nemici del popolo, secondo Pol Pot. Tutti coloro che avevano ricevuto un’istruzione dovevano morire, perché le loro anime erano corrotte, e bastava indossare gli occhiali da vista per essere individuati come intellettuali e, quindi, traditori. I sospetti venivano segregati per uno o due mesi, torturati, molto spesso costretti a confessare per cose non successe e spediti a Choeung Ek. Nei corridoi la schiera di foto segnaletiche sembra non finire mai. I volti di quelle persone che ti fissano e sanno che stanno per morire parlano, anzi urlano. Ed è assordante. E mi sento male. Mi manca l’aria. Devo uscire da li al più presto. Non riesco a scattare nemmeno una foto. Quel quarto d’ora mi può bastare, mentre Giulia continua la sua visita io mi sdraio su una panchina a riflettere.
La durezza di quest’esperienza è imparagonabile a qualunque altra esperienza forte che avevo mai vissuto. Ora mi risulta più facile capire il motivo per cui questa magnifica terra che ho imparato ad amare, con un passato così glorioso e la sua natura rigogliosa, si trova oggi in questo stato. Ero convinto di non avere paura di niente ed essere insensibile a tutto, ho capito molto anche di me. E l’ho capito proprio grazie a Phnom Penh.
Info utili:
Per raggiungere Phnom Penh da Siem Reap abbiamo viaggiato su un minivan (6 ore circa, al costo di 10 USD a testa), ma parlando con alcune persone e vedendo certe foto consiglierei di impiegare un paio d’ore in più andando via acqua lungo il lago Tonlè Sap.